Da più parti si levano voci di accusa verso una società in cui la vita dell’uomo viene trattata alla stregua di una merce. E questo avviene non soltanto nei Paesi del terzo mondo, ma anche nella nostra civilissima Europa. Miliardi sono gli esseri umani che patiscono la fame e non dispongono di sufficienti risorse idriche. Milioni le persone, in fuga da guerre e persecuzioni, che vagano alla ricerca della salvezza. Ogni giorno bambini sono rapiti, venduti come schiavi o costretti a lavorare come soldati. Il nostro mondo sembra affacciarsi su un terribile abisso. Perché ci ritroviamo in una situazione così difficile? È ancora possibile cambiare?
Sono le 22 del 19 aprile – un sabato apparentemente come altri – quando al Centro Nazionale Soccorso della Guardia Costiera giunge una telefonata da un satellitare. «Siamo in difficoltà, aiutateci». Il messaggio arriva da uno dei tanti “barconi della speranza”. La voce è quella di un uomo. Forse un “passeggero”, più probabilmente un complice degli scafisti. Il tono, neanche concitato, fa pensare, più che a una richiesta d’aiuto, a un “invito” affinché le navi dei soccorritori raggiungano il barcone e consentano ai naufraghi di approdare sulle coste italiane.
Tutto sembra seguire una prassi ormai consolidata. Grazie al sistema satellitare la Guardia costiera individua le coordinate del punto da cui è partita la chiamata. E si mette in moto la macchina dei soccorsi, con le richieste di intervento rivolte anche alle navi che incrociano la loro rotta lungo il Canale di Sicilia. Il barcone si trova a poco più di un centinaio di miglia a sud di Lampedusa quando viene raggiunto dal King Jacob. È la quarta volta che, negli ultimi giorni, il mercantile – un portacontainer, battente bandiera portoghese, con una stazza di 147 metri – interviene in operazioni di soccorso nei confronti dei migranti. Ma questa volta qualcosa va storto.
Questa volta il barcone, un “peschereccio” di una ventina di metri, è sovraccarico di migranti oltre ogni ragionevole limite: il ponte è stipato all’inverosimile, ma molti sono anche quelli chiusi nella stiva. I portelloni, secondo la testimonianza di un sopravvissuto, sono stati bloccati alla partenza. In totale a bordo ci sono quasi un migliaio di persone; 700 diranno alcuni, 950 stimano altri. Una barca così è una bomba a orologeria: basta un nonnulla, una manovra sbagliata, e non c’è speranza di salvezza. «Stavamo navigando nella loro direzione», racconta il comandante del King Jacob. «Appena ci hanno visto si sono agitati e il barcone si è capovolto. Si è rovesciato prima che potessimo avvicinarci e calare le scialuppe».
«Lo scafista voleva guidare la barca – hanno raccontato i sopravvissuti – e allo stesso tempo nascondersi tra di noi». Così le manovre avventate compiute dal comandante del barcone hanno portato il peschereccio a collidere con la nave. E quando il barcone ha urtato la King Jacob, a bordo è scoppiato il panico. «Tutti hanno iniziato ad agitarsi: quelli che erano più in basso hanno sentito l’urto e volevano salire. Alcuni di quelli che erano sul ponte sono finiti subito in acqua. La barca ha cominciato a muoversi sempre di più e poi si è ribaltata». In pochi attimi si consuma quella che Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr (Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati), ha definito come «una tragedia di proporzioni enormi, un’ecatombe mai vista nel Mediterraneo», peggiore anche della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, che fece 366 morti e 20 dispersi. Eppure, a ben guardare, questo non è che un episodio, la classica punta dell’iceberg, delle tante, innumerevoli tragedie che quotidianamente si ripropongono e vedono l’essere umano, ormai ridotto allo stato di merce, diventare vittima dei suoi stessi simili. Vittime di atti perpetrati senza pietà e senza scrupoli, da esseri umani su altri esseri umani. «(…) L’aspetto oscuro della vita si apre su un terribile abisso di proporzioni inimmaginabili e talmente complesso e articolato che non è possibile cogliere tutti gli aspetti degli orribili, singoli destini.
Viviamo in un sistema che si muove verso la manipolazione totale e l’asservimento dell’uomo, la limitazione della libertà, la perdita di valori e la voluta distruzione dell’Io, verso il soffocamento di qualsiasi impulso spirituale, verso la realizzazione tecnica di ogni aspetto della vita. Tolleriamo che un miliardo di esseri umani patisca la fame e non abbia acqua pulita, non a causa di catastrofi naturali ma per opera dell’uomo. Accettiamo che milioni di persone, in fuga da guerre, vaghino senza fine. Consentiamo che esseri umani vengano torturati e siano oggetto di abusi, che siano uccisi per l’espianto di organi o che bambini siano costretti a vivere e lavorare come soldati o schiavi; lasciamo che futuri esseri umani, con violenza ritualizzata, vengano strumentalizzati già nel grembo materno o che da piccolissimi – per i perversi scopi individuali di alcuni – vengano distrutti nella loro essenza umana. Non ci curiamo del fatto che ci siano persone che lavorano in condizioni disumane e addirittura muoiano nelle miniere o nei giacimenti minerari, nelle piantagioni come in smisurati capannoni, solo perché si possa soddisfare il nostro bisogno di beni di consumo a prezzi economici».
È partendo da osservazioni come queste che ha preso avvio la ricerca di Peter Krause. Una ricerca che dura ormai da molti anni e di cui ci ha dato testimonianza in svariate pubblicazioni. In particolare ne La mercificazione dell’uomo – il Quaderno di Flensburg recentemente pubblicato dall’Editrice Novalis – Krause ci propone una summa delle sue indagini, un momento riassuntivo delle sue esperienze e delle sue riflessioni. Leggendo questo Quaderno di Flensburg, potremo renderci conto verso quali abissi ci stiamo, con gravissime conseguenze, muovendo. «È la via che conduce al tentativo della totale distruzione dell’essere umano, sin dentro il nucleo della sua essenza spirituale. È la via che esclude qualsiasi buona spiritualità. È la via che rivela chiaramente che una vita senza spirito, senza una visione spirituale del mondo, non può che portare all’abisso, all’annientamento». Ma Peter Krause non si limita a farci spaziare con lo sguardo sull’abisso; ci ricorda, anche, che ogni ombra si manifesta perché esiste la luce. Non bisogna quindi abbandonarsi, rassegnati. Perché la risposta, la soluzione è in ciascuno di noi. Da solo o assieme agli altri, nel posto che la vita gli ha assegnato, ciascuno di noi può fare qualcosa per la guarigione della Terra, per salvare il nucleo spirituale degli esseri umani e per rivitalizzare la reciproca collaborazione e quella con gli esseri soprasensibili.