Il 22 maggio si è celebrata la Giornata Mondiale della Biodiversità.
“Our solutions are in Nature”: è questo lo slogan che ha caratterizzato l’ultima edizione della Giornata Mondiale della Biodiversità.
Finalità dell’evento – istituito dall’Onu vent’anni fa per celebrare la sottoscrizione a Rio de Janeiro della Convention on Biological Diversity (Convenzione sulla Diversità Biologica) – è proporsi quale momento di riflessione e confronto sulla necessità di tutelare le specie animali e vegetali e il loro habitat.
Oggi la biodiversità corre un grave pericolo, e questo si riflette anche sulla società e sulla nostra salute, come è stato sottolineato da molti esperti e scienziati a proposito delle cause che hanno provocato la pandemia Covid-19.
I tre pilastri
“Ogni anno, a fine maggio e inizio giugno, l’UNESCO celebra tre grandi giornate internazionali che rappresentano un’importante opportunità per considerare insieme i tre pilastri sistemici del cambiamento climatico: biodiversità, ambiente e oceani”, ha ricordato nel suo messaggio Audrey Azoulay, Direttore Generale dell’UNESCO.
“Di questi tre pilastri, è senza dubbio la biodiversità quella di cui si è parlato di più in queste ultime settimane di lockdown”, ha proseguito Azoulay. “Quest’anno, in un momento in cui il mondo è alle prese da molte settimane con una pandemia senza precedenti, questi giorni sono l’occasione per ricordarci ancora una volta che è solo con un approccio trasversale e ambizioso che possiamo costruire un (…) futuro sostenibile”. La situazione di lockdown ci ha ricordato quanto riferito nel rapporto IPBES, pubblicato un anno fa all’UNESCO: “il mondo degli esseri viventi sta scomparendo e le malattie infettive potrebbero proliferare di conseguenza”. Prendendo spunto dall’attuale situazione, i responsabili di Legambiente hanno sottolineato come il Covid-19 abbia posto in luce l’importanza di tutelare la diversità biologica del Pianeta, dato che il 31 per cento delle epidemie legate alle cosiddette malattie emergenti, come Ebola e Zika, “è legato al cambiamento nell’uso del suolo causato dall’invasione umana delle foreste pluviali tropicali”.
Interfaccia tra scienza e politica
Secondo i dati dell’IPBES – Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, un’organizzazione intergovernativa istituita delle Nazioni Unite per migliorare l’interfaccia tra scienza e politica in materia di biodiversità e servizi ecosistemici – tre quarti delle terre emerse sono stati significativamente alterati dall’azione umana. Tra le cause maggiormente impattanti sulle varie tipologie di habitat naturale figurano l’agricoltura e l’allevamento industriali. Basti pensare che, a livello mondiale, dal 1970 a oggi, il volume della produzione agricola è aumentato di circa il 300 per cento. Un incremento che è stato ottenuto senza preoccuparsi del degrado del suolo, e di conseguenza dell’ambiente. Da qui la crescita esponenziale dell’inquinamento e le sue conseguenze perniciose per la stessa salute umana. Un comportamento di cui oggi (sempre secondo i dati delle Nazioni Unite) paghiamo il conto anche a livello economico. Si calcola infatti che la produttività della superficie terrestre si sia ridotta di oltre il 20 per cento mentre, a causa della scomparsa degli impollinatori, sono a rischio colture per centinaia di miliardi di dollari.
Tra le principali cause della distruzione delle foreste possiamo sicuramente annoverare l’espansione dell’agricoltura industriale e dell’allevamento intensivo che hanno portato a un’incontrollata aggressione nei confronti del suolo al fine di creare nuovi spazi da destinare a colture e pascoli. Secondo quanto riportato da Greenpeace, i ricercatori stimano che il 31 per cento delle malattie infettive emergenti – tra cui HIV-AIDS, Ebola e Zika e con estrema probabilità anche Covid-19 – siano legate al degrado degli habitat naturali.
“Per rendere più forti i nostri ecosistemi – ha spiegato Antonio Nicoletti, responsabile aree protette e biodiversità di Legambiente in un’intervista riportata dall’Ansa – serve incrementare la percentuale di aree naturali protette, marine e terrestri, e porsi l’obiettivo di tutelare efficacemente il 30 per cento del territorio nazionale entro il 2030. Importante realizzare aree in cui non siano permesse attività antropiche”.
Ma c’è anche un’agricoltura che può rallentare l’erosione degli ecosistemi e addirittura curarli, contribuendo anche attivamente alla conservazione delle specie e degli habitat. Serve cioè una maggiore presenza di una natura più forte e più sana, anche nei nostri campi. Siepi, filari di alberi, corsi d’acqua e piccole zone umide costituiscono il riparo ideale per numerose specie sia animali sia vegetali.
Queste “infrastrutture verdi”, purtroppo quasi del tutto scomparse dal panorama agricolo del nostro paese, risultano basilari per la conservazione di una ricca biodiversità che rappresenta anche un aiuto a chi coltiva con metodi naturali.
“Abbiamo bisogno di un sistema agricolo che rispetti la biodiversità e che dalla biodiversità tragga forza”, ha ricordato Fausto Jori, amministratore delegato di NaturaSì. “L’obiettivo nelle 300 aziende agricole del nostro ecosistema è di portare al 15 per cento il totale delle superfici destinate alla presenza di aree lasciate alla natura selvaggia che danno feedback salubri ai campi agricoli che lì intorno vengono coltivati. Tutto si tiene in un equilibrio in cui l’uomo deve ‘solo’ assecondare i ritmi biologici: a beneficiarne siamo tutti, agricoltori e consumatori”.
“Nelle nostre 300 aziende agricole – prosegue Jori – oltre alla scelta del biodinamico e del biologico, e quindi al mancato utilizzo di pesticidi e fertilizzanti di chimica di sintesi, si praticano ricche rotazioni colturali, che assicurano una grande varietà di specie coltivate contemporaneamente, e viene promosso l’utilizzo di semi di varietà adatte all’agricoltura biologica”.
L’agricoltura può così trasformarsi da causa della perdita di biodiversità a risorsa per proteggere la natura e, addirittura, in asset per la produzione. Nella Giornata internazionale per la diversità biologica, esprimiamo quindi la speranza che questa crisi sanitaria dia un impulso decisivo alla protezione della biodiversità, e facciamo più che mai nostro questo detto di Édouard Glissant, “agisci dove sei, pensa con il mondo”.
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- Ambiente, alimentazione e invecchiamentoLa nostra storia è scritta nei nostri geni. Fino a non molto tempo fa si supponeva che l’invecchiamento fosse determinato da una sorta di programma già scritto, fin dall’inizio della nostra vita. E molte teorie sull’invecchiamento si sono basate sulla presenza di geni con effetto negativo, su mutazioni spontanee deleterie o altro ancora, idee basate sul concetto: un gene produce una, e una soltanto, proteina.
- Biodiversità: l’agricoltura riparte dalle infrastrutture verdi.“Our solutions are in Nature”: è questo lo slogan che ha caratterizzato l’ultima edizione della Giornata Mondiale della Biodiversità. Finalità dell’evento – istituito dall’Onu vent’anni fa per celebrare la sottoscrizione a Rio de Janeiro della Convention on Biological Diversity (Convenzione sulla Diversità Biologica) – è proporsi quale momento di riflessione e confronto sulla necessità di tutelare le specie animali e vegetali e il loro habitat.
- Innovazione e ricerca: alleanza per l’agroecologia35° Convegno dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica Il convegno, tenutosi a Milano presso la Triennale e il Politecnico dal 15 al 17 novembre, è stato l’occasione per affermare le basi scientifiche della biodinamica, fondata su un’epistemologia seria e moderna (la filosofia della libertà di Rudolf Steiner) e su un’agronomia rigorosa garantita dagli standard Demeter.
- Le agricolture innovativel’enorme interesse verso una riqualificazione etica del rapporto con la terra rischia di fermarsi a un nobile ma confuso fenomeno sentimentale allato della ferrea visione scientifica che non prende in considerazione percorsi che non rispondono ai suoi valori.